venerdì 27 gennaio 2012

lunedì 23 gennaio 2012

PER UNA NUOVA COSCIENZA SOCIALE

La crisi abbraccia ogni aspetto sociale.
Le ripercussioni economiche sono solo ciò che è immediatamente evidente in superficie.
Confinare l'emergenza che stiamo vivendo nell'ambito dell'economia è errore molto grave.
Eppure questo è il tentativo costante delle forze reazionarie, che hanno l'intento preciso di soffocare il pensiero al fine di mantenere inalterata la situazione.
Ciò che sostengo ritengo sia ben sostenuto dalla realtà dei fatti.
Per quanto la parola liberalizzazioni sia la più utilizzata di questo periodo, per coloro che esercitano la pratica conservatrice le posizioni di privilegio e monopolio rimangono saldissime.
Voglio subito chiarire che non sono tra quelli che vanno cercando il colpevole, nostalgico di un passato fatto di contrapposizioni ideologiche asprissime. Non sto puntando il dito contro il mondo dell'impresa, contro l'apparato statale,  verso le banche o qualsiasi altro bersaglio da mettere nella categoria del nemico per semplificare la realtà.
Sono banalmente una persona che vive il suo tempo,  che cerca di capire e agire di conseguenza, per non subire passivamente il corso della storia.
Sono una persona che considera ormai insopportabile l'atteggiamento di chi, immobile, pensa che la soluzione sia proteggere il recinto dei propri interessi materiali. Egoista nel momento in cui tutto è da mettere in discussione.
La chiusura di cui parlo è quella che, da noi, riesce ad avanzare come massima proposta per la riforma dell'esistente l'abrogazione dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, a dimostrare che niente vuole essere concesso.
Faccio questo esempio perchè emblematico.
Stiamo parlando di una semplice regola di civiltà, che chiede al datore di lavoro la giustificazione della sua decisione di licenziamento.
Ma da chi riesce a esprimere come massimo sentimento la pigrizia, il massimo che ci si poteva aspettare era la solita prova di forza verso il lavoro, l'idiota forzatura atta a peggiorare la condizione della parte già debole. E non vi aspettate opposizioni intransigenti da parte della sinistra, quella istituzionale è nella cerchia dei pigri da tempo immemore ormai.
Dunque soluzioni pigre, parziali. Perchè volte a distruggere tutele, perchè frutto di un pensiero che non riesce ad andare oltre il proprio ego.
Risultato finale: cancellazione del passato e paura del futuro.
Riprendendo le fila del discorso dunque il rimedio non può essere limitato, ma totale. Richiedente perciò un pensiero ampio, capace di respirare a pieni polmoni.
I filosofi d'altronde insegnano che la Verità va cercata in relazione al Tutto.
Ecco quindi l'idea della rubrica “Per una nuova coscienza sociale”, un piccolo spazio su questo blog dedicato a saggi che riflettono in modo globale sul sistema politico-economico che continua a schiacciare menti, corpi e cuori. Saggi per cercare una visione unitaria tale da aprire la strada del rilancio. 

Saggi per ripensare la forma sociale esistente fondata sul  nesso materialistico merce-denaro.
Sono scritti riportati dal sito
exit-online.org, pagina internet dell'omonima rivista tedesca di teoria sociale.
Mi sono stati consigliati da un amico, Samuele Cerea (in alcuni casi loro traduttore), che si occuperà della loro presentazione.
Non resta che augurarvi buona lettura, o meglio buon pensiero.


PRIMO SAGGIO
Autore Robert Kurz

LA TERZA FORZA. La fine e l'inizio della neutralità

PRESENTAZIONE DELL'AUTORE

di Samuele Cerea


Al carattere piuttosto sterile e mediatico della contestazione globale fa da contrappunto la modestia della teoria critica sociale. Dopo il 1989 la sinistra politica, sia essa socialdemocratica o «marxista», si è largamente riappacificata con il liberalismo di mercato oppure è regredita verso un pensiero eclettico, sociologistico, del tutto acritico nei confronti della forma sociale, non di rado espresso in un gergo mistificante postmoderno. Ne fa parte il bricolage intellettuale di una critica irrelata, che invece di analizzare la società nel suo compimento si lancia in barocchismi in cui Lenin si coniuga con Lacan e per cui l’analisi delle pulsioni autodistruttive sociali passa attraverso l’esegesi di un’opera di Majakovskj o di un film di Lars von Trier.
Esistono anche le eccezioni e naturalmente una di queste si chiama Robert Kurz. Figura a dir poco singolare e controversa nel panorama intellettuale non solo tedesco, a partire dagli anni Novanta questo «marxista apocalittico», come amano chiamarlo alcuni dei suoi detrattori, si è conquistato, nonostante la sconcertante radicalità delle sue tesi, uno spazio pubblicistico impensabile in particolare su giornali e periodici tedeschi (Neues Deutschland, Freitag etc.) e sudamericani (per anni ha scritto regolarmente su Folha di San Paolo). Formatosi nel periodo della contestazione degli anni Sessanta, Kurz non si è rassegnato all’involuzione settaria e politicistica della «Neue Linke» degli anni Settanta, iniziando un fruttuosissimo percorso di revisione radicale del pensiero di Marx.
Dopo una «fase catacombale» iniziata nel 1986 con la fondazione della rivista teorica Marxistische Kritik (divenuta a partire dal 1991 Krisis), il successo del saggio Der Kollaps der Modernisierung (Il collasso della modernizzazione,1991) ha permesso alle teorie di Kurz di conquistarsi gradualmente un certo spazio nel dibattito della sinistra tedesca. Nel 2004 in seguito a un violento dissidio esploso in seno alla redazione di Krisis, Kurz e alcuni suoi stretti collaboratori sono stati di fatto «epurati» dalla rivista. La fondazione della nuova rivista Exit! marca una nuova fase nell’evoluzione del pensiero di Kurz dopo l’iconoclastia marxista del primo decennio, in cui diviene centrale la critica dell’ideologia illuministica (già iniziata negli ultimi numeri di Krisis) e soprattutto della soggettività moderna e della sua ragione astorica.
La radicalità delle tesi di Kurz consiste nel fatto che la sua critica sociale è una critica fondamentale, categoriale, una critica del funzionamento della società capitalistica moderna che prende di mira le categorie su cui essa si fonda («valore», «lavoro», «denaro», «Stato», «democrazia», «politica», etc.) e si pone quindi agli antipodi di tutte le pseudo-critiche che rimproverano il capitalismo di non essere più all’altezza di se stesso, cioè di non essere più in grado di creare sviluppo, posti di lavoro, sistemi di previdenza sociale adeguati etc (buona parte dei sindacati) oppure accusano qualche suo elemento (le banche, la finanza, la «speculazione») di avere messo a soqquadro il sistema per avidità di denaro (critica demagogica assai diffusa tra politici, intellettuali, persino economisti, fino ai movimenti Occupy e «indignati» e all’estrema destra radicale) o infine vorrebbero una forma di capitalismo light moderato ed «ecologicamente sostenibile».
Già in Kollaps Kurz aveva avanzato la tesi, per l’epoca audacissima, per cui il naufragio dei socialismi di Stato dell’Est non andava interpretato come il crollo inevitabile di quelle economie dirigiste che si erano illuse di poter soppiantare i meccanismi di mercato, ma come una tappa nella crisi della forma sociale moderna, fondata sulle categorie apparentemente astoriche della merce, del valore e del lavoro; crisi che oggi trova il suo esito definitivo nell’agonia delle economie capitalistiche dell’Occidente avanzato. In Schwarzbuch Kapitalismus (Il libro nero del capitalismo), un ampio excursus sulla storia della modernità capitalistica, Kurz denuncia tra l’altro il carattere ideologico dell’autolegittimazione capitalistica: lungi dal rappresentare la soluzione finalmente trovata ai problemi della socializzazione umana, l’avvento della modernità è stato un processo storico concreto, affermatosi a spese di tutti i modi di vita tradizionali precedenti, generalmente con metodi brutali, a prezzo del sacrificio di molte generazioni e i cui «benefici» furono inizialmente e per lungo tempo ristretti a un’esigua élite. Solo in seguito, durante l’epoca fordista, la massificazione del consumo e la costruzione dello Stato sociale (comunque sia limitata all’Europa, al Nordamerica, al Giappone e a pochi altri paesi) riuscirono a far dimenticare almeno in parte i «costi umani» che avevano sempre caratterizzato la sua esistenza, creando così una sorta di legittimazione a posteriori storicamente e logicamente inaccettabile. Adesso però con l’incremento della produttività dovuto all’implementazione tecnologica della produzione capitalistica viene messa definitivamente in crisi la fisiologia stessa del sistema cioè la produzione di valore e così dalla prosperità del fordismo stiamo scivolando più o meno gradualmente in una nuova epoca di miseria sociale e sovvertimenti su vasta scala.
Weltordnungskrieg (La guerra dell’ordine mondiale) e Das Weltkapital (Il capitale mondiale) affrontano da due versanti differenti il problema della globalizzazione, tanto ossessivamente tematizzato dalla pubblicistica, quanto fondamentalmente incompreso. Le «guerre dell’ordine mondiale» degli anni Novanta e Duemila (Irak I e II, Jugoslavia, Afghanistan etc.), diversamente da quanto affermato da ampi settori della sinistra, non sono semplicemente l’espressione di meri interessi materialistici in termini di risorse e di sfere di influenza, un riassetto geopolitico globale operato da potenze imperialistiche nel vecchio senso del termine (in primis gli USA) desiderose di completare il trionfo economico dell’economia di mercato, con il controllo politico delle regioni chiave del globo, quanto piuttosto la forma necessaria che assumono le relazioni globali nel contesto della globalizzazione capitalistica stessa. La crisi della statalità, causata dalla vittoria dell’economia della merce, genera il collasso di interi paesi e macroregioni che a sua volta finisce col mettere in crisi, esteriormente, i processi concreti della valorizzazione capitalistica e che richiede l’intervento dell’ultima superpotenza globale e di suoi partner per garantire le condizioni di sopravvivenza del capitalismo globale. Das Weltkapital dimostra come la globalizzazione economica deriva dall’assoluta necessità da parte delle imprese di ridurre i propri costi aziendali mediante strategie di outsourcing e di delocalizzazione a discapito dell’accumulazione di valore complessiva mentre l’assurda economia dell’indebitamento, delle bolle finanziarie, degli strumenti derivati, oggi tanto deprecata, non rappresenta affatto una patologia del sistema ma l’ultima possibilità di mantenere in vita, seppure in una forma simulata, i nessi sociali che si fondano sul valore, sullo scambio di merce, sul denaro, sui «posti di lavoro» etc. Di conseguenza ogni reazione ideologica che si limiti a criticare la sfera della circolazione (la finanza, le banche), senza riconoscere allo stesso tempo l’esaurimento della dinamica della cosiddetta «economia reale» non può che girare a vuoto o peggio spingere alla ricerca di qualche capro espiatorio (l’idea dell’evasore fiscale o dello speculatore come «parassita»).
Una lettura attenta delle idee di Kurz non può che giovare a persone «che vogliano imparare qualcosa di nuovo e dunque pensare da sé», che non si accontentano di pantomime mediatiche e di una critica sociale tradizionale ormai da tempo alle corde.  

mercoledì 18 gennaio 2012

Senza pensiero rivoluzionario non c'è politica

Simon Weil ha scritto riguardo alla rivoluzione: “In generale quel rovesciamento improvviso dei rapporti di forza che è quanto normalmente si intende per rivoluzione non solo è un fenomeno sconosciuto nella storia, ma è anche, se lo si considera da vicino, qualcosa d'inconcepibile, a voler essere precisi, perchè sarebbe una vittoria della debolezza sulla forza, l'equivalente di una bilancia in cui si abbassasse il piatto meno pesante. La storia ci presenta piuttosto lente trasformazioni di regimi in cui gli avvenimenti sanguinosi che noi battezziamo rivoluzioni svolgono un ruolo molto secondario, e possono anche non essere presenti; è il caso in cui lo strato sociale che dominava in nome degli antichi rapporti di forza riesce a conservare una parte del potere col favore dei nuovi rapporti.”
La penso come lei.
La frase è tratta dal libro “Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale”.
Libro lucido, rivoluzionario. Non come l'atteggiamento di chi ce l'ha sempre in bocca la parola rivoluzione e i cui comportamenti, invece, assomigliano a quelli di scalmanati sotto l'effetto di droghe.
Mi sto riferendo a quelle persone che per quanto abbiano infarcito la loro eloquente retorica di linguaggio “rivoluzionario”, abbiano urlato ai quattro venti la rivoluzione, hanno il difetto di non averla mai pensata davvero, o meglio, l'hanno pensata come giustificazione.
Sono quelli ciecamente convinti che la soluzione stia nella ribellione violenta.
Parlando come loro, convinti che la soluzione stia nell'esproprio proletario contro il potere costituito. Convinti che la rivoluzione sia un atto militare.
Non nutro verso di essi solo dubbi, il mio è uno scetticismo radicale, perchè la frustrazione e la rabbia dei loro volti non sono altro che le forme della loro paura.
Trovo molto azzeccato per queste persone il verso della canzone “Salvami” di Jovanotti, “i corvi che gracchiano "rivoluzione"!! però non c'è pietà e non c'è compassione”.
Non ce l'hanno neanche verso se stessi la compassione e così il loro affanno continua  a crescere e l'esproprio proletario messo in pratica si trasforma in vetrine distrutte, automobili incendiate, atti di vandalismo molteplici verso chi non c'entra nulla, gente che la mattina si era molto banalmente svegliata per andare a lavorare.
Naturalmente le vetrine devono appartenere a qualche banca e meglio se le automobili date alle fiamme hanno scritto sulla fiancata “Polizia”, cioè appartengono all'apparato statale che ogni giorno opprime le loro vite.
Hanno bisogno di un nemico loro. La rivoluzione va fatta contro il nemico.
La verità è che il nemico sono loro stessi e il loro disagio di stare al mondo.
Per quanto siano pochi, sono comunque un numero discreto. Tale da essere utilizzato ogni volta, dallo stesso sistema che mettono così accanitamente in discussione, per confondere e spostare l'attenzione. Il loro teatrino guerrigliero di sanpietrini è riuscito negli ultimi anni a prendersi il posto nei media di ogni grande mobilitazione popolare.
E così risveglio civile bloccato.
Ma non sono loro quelli che vogliono la rivoluzione?
No, loro sono solo irresponsabili. Uomini e donne che hanno deciso di non crescere, convinti che per vedere realizzati i loro scenari ideali (ammesso che ne abbiano) non serva tempo, ma azioni rapide, cioè, tradotto, vigliaccherie.
C'è un rischio però. Ho timore che ci sia qualche possibilità che prima o poi i villani avranno ragione. La rivolta civile non può non scoppiare se si va avanti di questo passo. La disuguaglianza attuale è infatti il miglior strumento per far implodere la società e  far vincere i soliti, sostituire un potere con un altro come pensava Simon Weil, lasciando tutti gli altri, quelli che alle manifestazioni hanno partecipato con l'entusiasmo giusto o che comunque quotidianamente si impegnano affinchè le cose cambino, nel ruolo di attori non protagonisti, attori secondari, fuori dalla storia.
Potrà sembrarvi paradossale, ma io credo che il rimedio sia da individuarsi proprio nella cessione a degli esagitati della parola rivoluzione e nella sua scomparsa dal discorso politico.
Perchè non è solo il vocabolo ad essere stato abbandonato, ma anche il pensiero che porta con sé.
La stagnazione che viviamo oggi è dovuta al fatto che l'oggetto del nostro pensiero si è ridotto. L'ingiustizia ci sembra insuperabile perchè percepiamo la realtà in modo parziale, mentre essa può essere ribaltata solo da un pensiero totale, un pensiero rivoluzionario.
Il pensiero rivoluzionario ha per contenuto una visione globale dell'esistente, abbraccia ogni aspetto sociale, è un pensiero che collega, mette in connessione i diversi elementi, che rende ogni parte funzionale all'insieme. Un pensiero che capovolge le menti perchè fa scorgere l'orizzonte in cui converge ogni differenza.
Il pensiero politico non è più rivoluzionario da molto tempo.
A destra e a sinistra si dichiarano tutti riformisti. Ci hanno fatto venire il mal di testa a fuori di proporre riforme. Averne vista almeno una.
Se si guarda più in profondità ci si accorge che è proprio la bugia spudorata delle riforme il limite dell'azione politica.
Il continuo sollecitare le riforme è la prova di un pensiero  incompleto (a volte ho dei dubbi che un pensiero ci sia, ma questo è un altro discorso).
La riforma infatti si limita a intervenire rispetto all'anomalia di un determinato settore senza inserire la decisione in una visione complessiva. 
Noi stiamo vivendo il dominio della tecnica, dell'economia.
La politica non fa altro che essere un gregario di queste, una loro prosecuzione passiva, per giunta.
A questo punto credo che la mia tesi sia chiara: senza pensiero rivoluzionario niente politica. Le riforme devono farsi, certo, ma non sorrette da un pensiero settoriale, altrimenti come è possibile il cambiamento?
La politica deve essere capace di vedere il legame che esiste tra la chiesa e l'omosessualità, tra i cani  e i gatti, mettere insieme la normalità con l'uso di stupefacenti, la follia e la stabilità, trovare il nodo tra le televendite e i libri di saggistica, tra i santi e la prostituzione.
La politica insomma deve tornare ad essere la tensione alla trasformazione, il filtro per far passare nuove energie, nuovi mondi, nuove idee purchè allacciati da un comune fondamento di senso. 

La politica deve tornare ad essere la costruzione del futuro di tutti e del Tutto. E il Tutto ha bisogno di un pensiero di ampio respiro che guarda oltre, lontano.
Bisogna ridare nobiltà alla parola rivoluzione.
Per me la nobiltà  è un sentimento. Il sentimento di chi è consapevole di avere con sé una cosa  fragile, preziosa, da curare pensandola ogni giorno.
Nello stesso libro Simon Weil ha anche scritto: “La libertà autentica non è definita da un rapporto tra il desiderio e la soddisfazione, ma da un rapporto tra il pensiero e l'azione”.
Allora pensiamola e facciamola la rivoluzione, ma attraverso il silenzio di fatti che hanno come scopo l'unità delle cose e non la loro separazione
E siccome è cosa delicata, la rivoluzione, pensiamola e facciamola con serenità.
Chiudo ancora con Simone Weil. La filosofa termina il libro così: “... reagire alla subordinazione dell'individuo alla collettività implica che si cominci col rifiuto di subordinare il proprio destino al corso della storia. Per risolversi a un simile sforzo di analisi critica basta aver compreso che esso permetterebbe a chi vi si impegnasse di sfuggire al contagio della follia e della vertigine collettiva tornando a stringere per conto proprio, al di sopra dell'idolo sociale, il patto originario dello spirito con l'universo.”