lunedì 23 gennaio 2012

PER UNA NUOVA COSCIENZA SOCIALE

La crisi abbraccia ogni aspetto sociale.
Le ripercussioni economiche sono solo ciò che è immediatamente evidente in superficie.
Confinare l'emergenza che stiamo vivendo nell'ambito dell'economia è errore molto grave.
Eppure questo è il tentativo costante delle forze reazionarie, che hanno l'intento preciso di soffocare il pensiero al fine di mantenere inalterata la situazione.
Ciò che sostengo ritengo sia ben sostenuto dalla realtà dei fatti.
Per quanto la parola liberalizzazioni sia la più utilizzata di questo periodo, per coloro che esercitano la pratica conservatrice le posizioni di privilegio e monopolio rimangono saldissime.
Voglio subito chiarire che non sono tra quelli che vanno cercando il colpevole, nostalgico di un passato fatto di contrapposizioni ideologiche asprissime. Non sto puntando il dito contro il mondo dell'impresa, contro l'apparato statale,  verso le banche o qualsiasi altro bersaglio da mettere nella categoria del nemico per semplificare la realtà.
Sono banalmente una persona che vive il suo tempo,  che cerca di capire e agire di conseguenza, per non subire passivamente il corso della storia.
Sono una persona che considera ormai insopportabile l'atteggiamento di chi, immobile, pensa che la soluzione sia proteggere il recinto dei propri interessi materiali. Egoista nel momento in cui tutto è da mettere in discussione.
La chiusura di cui parlo è quella che, da noi, riesce ad avanzare come massima proposta per la riforma dell'esistente l'abrogazione dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, a dimostrare che niente vuole essere concesso.
Faccio questo esempio perchè emblematico.
Stiamo parlando di una semplice regola di civiltà, che chiede al datore di lavoro la giustificazione della sua decisione di licenziamento.
Ma da chi riesce a esprimere come massimo sentimento la pigrizia, il massimo che ci si poteva aspettare era la solita prova di forza verso il lavoro, l'idiota forzatura atta a peggiorare la condizione della parte già debole. E non vi aspettate opposizioni intransigenti da parte della sinistra, quella istituzionale è nella cerchia dei pigri da tempo immemore ormai.
Dunque soluzioni pigre, parziali. Perchè volte a distruggere tutele, perchè frutto di un pensiero che non riesce ad andare oltre il proprio ego.
Risultato finale: cancellazione del passato e paura del futuro.
Riprendendo le fila del discorso dunque il rimedio non può essere limitato, ma totale. Richiedente perciò un pensiero ampio, capace di respirare a pieni polmoni.
I filosofi d'altronde insegnano che la Verità va cercata in relazione al Tutto.
Ecco quindi l'idea della rubrica “Per una nuova coscienza sociale”, un piccolo spazio su questo blog dedicato a saggi che riflettono in modo globale sul sistema politico-economico che continua a schiacciare menti, corpi e cuori. Saggi per cercare una visione unitaria tale da aprire la strada del rilancio. 

Saggi per ripensare la forma sociale esistente fondata sul  nesso materialistico merce-denaro.
Sono scritti riportati dal sito
exit-online.org, pagina internet dell'omonima rivista tedesca di teoria sociale.
Mi sono stati consigliati da un amico, Samuele Cerea (in alcuni casi loro traduttore), che si occuperà della loro presentazione.
Non resta che augurarvi buona lettura, o meglio buon pensiero.


PRIMO SAGGIO
Autore Robert Kurz

LA TERZA FORZA. La fine e l'inizio della neutralità

PRESENTAZIONE DELL'AUTORE

di Samuele Cerea


Al carattere piuttosto sterile e mediatico della contestazione globale fa da contrappunto la modestia della teoria critica sociale. Dopo il 1989 la sinistra politica, sia essa socialdemocratica o «marxista», si è largamente riappacificata con il liberalismo di mercato oppure è regredita verso un pensiero eclettico, sociologistico, del tutto acritico nei confronti della forma sociale, non di rado espresso in un gergo mistificante postmoderno. Ne fa parte il bricolage intellettuale di una critica irrelata, che invece di analizzare la società nel suo compimento si lancia in barocchismi in cui Lenin si coniuga con Lacan e per cui l’analisi delle pulsioni autodistruttive sociali passa attraverso l’esegesi di un’opera di Majakovskj o di un film di Lars von Trier.
Esistono anche le eccezioni e naturalmente una di queste si chiama Robert Kurz. Figura a dir poco singolare e controversa nel panorama intellettuale non solo tedesco, a partire dagli anni Novanta questo «marxista apocalittico», come amano chiamarlo alcuni dei suoi detrattori, si è conquistato, nonostante la sconcertante radicalità delle sue tesi, uno spazio pubblicistico impensabile in particolare su giornali e periodici tedeschi (Neues Deutschland, Freitag etc.) e sudamericani (per anni ha scritto regolarmente su Folha di San Paolo). Formatosi nel periodo della contestazione degli anni Sessanta, Kurz non si è rassegnato all’involuzione settaria e politicistica della «Neue Linke» degli anni Settanta, iniziando un fruttuosissimo percorso di revisione radicale del pensiero di Marx.
Dopo una «fase catacombale» iniziata nel 1986 con la fondazione della rivista teorica Marxistische Kritik (divenuta a partire dal 1991 Krisis), il successo del saggio Der Kollaps der Modernisierung (Il collasso della modernizzazione,1991) ha permesso alle teorie di Kurz di conquistarsi gradualmente un certo spazio nel dibattito della sinistra tedesca. Nel 2004 in seguito a un violento dissidio esploso in seno alla redazione di Krisis, Kurz e alcuni suoi stretti collaboratori sono stati di fatto «epurati» dalla rivista. La fondazione della nuova rivista Exit! marca una nuova fase nell’evoluzione del pensiero di Kurz dopo l’iconoclastia marxista del primo decennio, in cui diviene centrale la critica dell’ideologia illuministica (già iniziata negli ultimi numeri di Krisis) e soprattutto della soggettività moderna e della sua ragione astorica.
La radicalità delle tesi di Kurz consiste nel fatto che la sua critica sociale è una critica fondamentale, categoriale, una critica del funzionamento della società capitalistica moderna che prende di mira le categorie su cui essa si fonda («valore», «lavoro», «denaro», «Stato», «democrazia», «politica», etc.) e si pone quindi agli antipodi di tutte le pseudo-critiche che rimproverano il capitalismo di non essere più all’altezza di se stesso, cioè di non essere più in grado di creare sviluppo, posti di lavoro, sistemi di previdenza sociale adeguati etc (buona parte dei sindacati) oppure accusano qualche suo elemento (le banche, la finanza, la «speculazione») di avere messo a soqquadro il sistema per avidità di denaro (critica demagogica assai diffusa tra politici, intellettuali, persino economisti, fino ai movimenti Occupy e «indignati» e all’estrema destra radicale) o infine vorrebbero una forma di capitalismo light moderato ed «ecologicamente sostenibile».
Già in Kollaps Kurz aveva avanzato la tesi, per l’epoca audacissima, per cui il naufragio dei socialismi di Stato dell’Est non andava interpretato come il crollo inevitabile di quelle economie dirigiste che si erano illuse di poter soppiantare i meccanismi di mercato, ma come una tappa nella crisi della forma sociale moderna, fondata sulle categorie apparentemente astoriche della merce, del valore e del lavoro; crisi che oggi trova il suo esito definitivo nell’agonia delle economie capitalistiche dell’Occidente avanzato. In Schwarzbuch Kapitalismus (Il libro nero del capitalismo), un ampio excursus sulla storia della modernità capitalistica, Kurz denuncia tra l’altro il carattere ideologico dell’autolegittimazione capitalistica: lungi dal rappresentare la soluzione finalmente trovata ai problemi della socializzazione umana, l’avvento della modernità è stato un processo storico concreto, affermatosi a spese di tutti i modi di vita tradizionali precedenti, generalmente con metodi brutali, a prezzo del sacrificio di molte generazioni e i cui «benefici» furono inizialmente e per lungo tempo ristretti a un’esigua élite. Solo in seguito, durante l’epoca fordista, la massificazione del consumo e la costruzione dello Stato sociale (comunque sia limitata all’Europa, al Nordamerica, al Giappone e a pochi altri paesi) riuscirono a far dimenticare almeno in parte i «costi umani» che avevano sempre caratterizzato la sua esistenza, creando così una sorta di legittimazione a posteriori storicamente e logicamente inaccettabile. Adesso però con l’incremento della produttività dovuto all’implementazione tecnologica della produzione capitalistica viene messa definitivamente in crisi la fisiologia stessa del sistema cioè la produzione di valore e così dalla prosperità del fordismo stiamo scivolando più o meno gradualmente in una nuova epoca di miseria sociale e sovvertimenti su vasta scala.
Weltordnungskrieg (La guerra dell’ordine mondiale) e Das Weltkapital (Il capitale mondiale) affrontano da due versanti differenti il problema della globalizzazione, tanto ossessivamente tematizzato dalla pubblicistica, quanto fondamentalmente incompreso. Le «guerre dell’ordine mondiale» degli anni Novanta e Duemila (Irak I e II, Jugoslavia, Afghanistan etc.), diversamente da quanto affermato da ampi settori della sinistra, non sono semplicemente l’espressione di meri interessi materialistici in termini di risorse e di sfere di influenza, un riassetto geopolitico globale operato da potenze imperialistiche nel vecchio senso del termine (in primis gli USA) desiderose di completare il trionfo economico dell’economia di mercato, con il controllo politico delle regioni chiave del globo, quanto piuttosto la forma necessaria che assumono le relazioni globali nel contesto della globalizzazione capitalistica stessa. La crisi della statalità, causata dalla vittoria dell’economia della merce, genera il collasso di interi paesi e macroregioni che a sua volta finisce col mettere in crisi, esteriormente, i processi concreti della valorizzazione capitalistica e che richiede l’intervento dell’ultima superpotenza globale e di suoi partner per garantire le condizioni di sopravvivenza del capitalismo globale. Das Weltkapital dimostra come la globalizzazione economica deriva dall’assoluta necessità da parte delle imprese di ridurre i propri costi aziendali mediante strategie di outsourcing e di delocalizzazione a discapito dell’accumulazione di valore complessiva mentre l’assurda economia dell’indebitamento, delle bolle finanziarie, degli strumenti derivati, oggi tanto deprecata, non rappresenta affatto una patologia del sistema ma l’ultima possibilità di mantenere in vita, seppure in una forma simulata, i nessi sociali che si fondano sul valore, sullo scambio di merce, sul denaro, sui «posti di lavoro» etc. Di conseguenza ogni reazione ideologica che si limiti a criticare la sfera della circolazione (la finanza, le banche), senza riconoscere allo stesso tempo l’esaurimento della dinamica della cosiddetta «economia reale» non può che girare a vuoto o peggio spingere alla ricerca di qualche capro espiatorio (l’idea dell’evasore fiscale o dello speculatore come «parassita»).
Una lettura attenta delle idee di Kurz non può che giovare a persone «che vogliano imparare qualcosa di nuovo e dunque pensare da sé», che non si accontentano di pantomime mediatiche e di una critica sociale tradizionale ormai da tempo alle corde.