mercoledì 18 gennaio 2012

Senza pensiero rivoluzionario non c'è politica

Simon Weil ha scritto riguardo alla rivoluzione: “In generale quel rovesciamento improvviso dei rapporti di forza che è quanto normalmente si intende per rivoluzione non solo è un fenomeno sconosciuto nella storia, ma è anche, se lo si considera da vicino, qualcosa d'inconcepibile, a voler essere precisi, perchè sarebbe una vittoria della debolezza sulla forza, l'equivalente di una bilancia in cui si abbassasse il piatto meno pesante. La storia ci presenta piuttosto lente trasformazioni di regimi in cui gli avvenimenti sanguinosi che noi battezziamo rivoluzioni svolgono un ruolo molto secondario, e possono anche non essere presenti; è il caso in cui lo strato sociale che dominava in nome degli antichi rapporti di forza riesce a conservare una parte del potere col favore dei nuovi rapporti.”
La penso come lei.
La frase è tratta dal libro “Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale”.
Libro lucido, rivoluzionario. Non come l'atteggiamento di chi ce l'ha sempre in bocca la parola rivoluzione e i cui comportamenti, invece, assomigliano a quelli di scalmanati sotto l'effetto di droghe.
Mi sto riferendo a quelle persone che per quanto abbiano infarcito la loro eloquente retorica di linguaggio “rivoluzionario”, abbiano urlato ai quattro venti la rivoluzione, hanno il difetto di non averla mai pensata davvero, o meglio, l'hanno pensata come giustificazione.
Sono quelli ciecamente convinti che la soluzione stia nella ribellione violenta.
Parlando come loro, convinti che la soluzione stia nell'esproprio proletario contro il potere costituito. Convinti che la rivoluzione sia un atto militare.
Non nutro verso di essi solo dubbi, il mio è uno scetticismo radicale, perchè la frustrazione e la rabbia dei loro volti non sono altro che le forme della loro paura.
Trovo molto azzeccato per queste persone il verso della canzone “Salvami” di Jovanotti, “i corvi che gracchiano "rivoluzione"!! però non c'è pietà e non c'è compassione”.
Non ce l'hanno neanche verso se stessi la compassione e così il loro affanno continua  a crescere e l'esproprio proletario messo in pratica si trasforma in vetrine distrutte, automobili incendiate, atti di vandalismo molteplici verso chi non c'entra nulla, gente che la mattina si era molto banalmente svegliata per andare a lavorare.
Naturalmente le vetrine devono appartenere a qualche banca e meglio se le automobili date alle fiamme hanno scritto sulla fiancata “Polizia”, cioè appartengono all'apparato statale che ogni giorno opprime le loro vite.
Hanno bisogno di un nemico loro. La rivoluzione va fatta contro il nemico.
La verità è che il nemico sono loro stessi e il loro disagio di stare al mondo.
Per quanto siano pochi, sono comunque un numero discreto. Tale da essere utilizzato ogni volta, dallo stesso sistema che mettono così accanitamente in discussione, per confondere e spostare l'attenzione. Il loro teatrino guerrigliero di sanpietrini è riuscito negli ultimi anni a prendersi il posto nei media di ogni grande mobilitazione popolare.
E così risveglio civile bloccato.
Ma non sono loro quelli che vogliono la rivoluzione?
No, loro sono solo irresponsabili. Uomini e donne che hanno deciso di non crescere, convinti che per vedere realizzati i loro scenari ideali (ammesso che ne abbiano) non serva tempo, ma azioni rapide, cioè, tradotto, vigliaccherie.
C'è un rischio però. Ho timore che ci sia qualche possibilità che prima o poi i villani avranno ragione. La rivolta civile non può non scoppiare se si va avanti di questo passo. La disuguaglianza attuale è infatti il miglior strumento per far implodere la società e  far vincere i soliti, sostituire un potere con un altro come pensava Simon Weil, lasciando tutti gli altri, quelli che alle manifestazioni hanno partecipato con l'entusiasmo giusto o che comunque quotidianamente si impegnano affinchè le cose cambino, nel ruolo di attori non protagonisti, attori secondari, fuori dalla storia.
Potrà sembrarvi paradossale, ma io credo che il rimedio sia da individuarsi proprio nella cessione a degli esagitati della parola rivoluzione e nella sua scomparsa dal discorso politico.
Perchè non è solo il vocabolo ad essere stato abbandonato, ma anche il pensiero che porta con sé.
La stagnazione che viviamo oggi è dovuta al fatto che l'oggetto del nostro pensiero si è ridotto. L'ingiustizia ci sembra insuperabile perchè percepiamo la realtà in modo parziale, mentre essa può essere ribaltata solo da un pensiero totale, un pensiero rivoluzionario.
Il pensiero rivoluzionario ha per contenuto una visione globale dell'esistente, abbraccia ogni aspetto sociale, è un pensiero che collega, mette in connessione i diversi elementi, che rende ogni parte funzionale all'insieme. Un pensiero che capovolge le menti perchè fa scorgere l'orizzonte in cui converge ogni differenza.
Il pensiero politico non è più rivoluzionario da molto tempo.
A destra e a sinistra si dichiarano tutti riformisti. Ci hanno fatto venire il mal di testa a fuori di proporre riforme. Averne vista almeno una.
Se si guarda più in profondità ci si accorge che è proprio la bugia spudorata delle riforme il limite dell'azione politica.
Il continuo sollecitare le riforme è la prova di un pensiero  incompleto (a volte ho dei dubbi che un pensiero ci sia, ma questo è un altro discorso).
La riforma infatti si limita a intervenire rispetto all'anomalia di un determinato settore senza inserire la decisione in una visione complessiva. 
Noi stiamo vivendo il dominio della tecnica, dell'economia.
La politica non fa altro che essere un gregario di queste, una loro prosecuzione passiva, per giunta.
A questo punto credo che la mia tesi sia chiara: senza pensiero rivoluzionario niente politica. Le riforme devono farsi, certo, ma non sorrette da un pensiero settoriale, altrimenti come è possibile il cambiamento?
La politica deve essere capace di vedere il legame che esiste tra la chiesa e l'omosessualità, tra i cani  e i gatti, mettere insieme la normalità con l'uso di stupefacenti, la follia e la stabilità, trovare il nodo tra le televendite e i libri di saggistica, tra i santi e la prostituzione.
La politica insomma deve tornare ad essere la tensione alla trasformazione, il filtro per far passare nuove energie, nuovi mondi, nuove idee purchè allacciati da un comune fondamento di senso. 

La politica deve tornare ad essere la costruzione del futuro di tutti e del Tutto. E il Tutto ha bisogno di un pensiero di ampio respiro che guarda oltre, lontano.
Bisogna ridare nobiltà alla parola rivoluzione.
Per me la nobiltà  è un sentimento. Il sentimento di chi è consapevole di avere con sé una cosa  fragile, preziosa, da curare pensandola ogni giorno.
Nello stesso libro Simon Weil ha anche scritto: “La libertà autentica non è definita da un rapporto tra il desiderio e la soddisfazione, ma da un rapporto tra il pensiero e l'azione”.
Allora pensiamola e facciamola la rivoluzione, ma attraverso il silenzio di fatti che hanno come scopo l'unità delle cose e non la loro separazione
E siccome è cosa delicata, la rivoluzione, pensiamola e facciamola con serenità.
Chiudo ancora con Simone Weil. La filosofa termina il libro così: “... reagire alla subordinazione dell'individuo alla collettività implica che si cominci col rifiuto di subordinare il proprio destino al corso della storia. Per risolversi a un simile sforzo di analisi critica basta aver compreso che esso permetterebbe a chi vi si impegnasse di sfuggire al contagio della follia e della vertigine collettiva tornando a stringere per conto proprio, al di sopra dell'idolo sociale, il patto originario dello spirito con l'universo.”